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17 – 22 gennaio | Teatro della Pergola
(martedì, mercoledì, venerdì, sabato, ore 21; giovedì, ore 19; domenica, ore 16)
Gabriele Lavia Federica Di Martino in
IL BERRETTO A SONAGLI
di Luigi Pirandello
con Francesco Bonomo, Matilde Piana, Maribella Piana, Mario Pietramala, Giovanna Guida, Beatrice Ceccherini
scene Alessandro Camera
costumi ideati dagli allievi del Terzo anno dell’Accademia Costume & Moda Matilde Annis, Carlotta Bufalini, Flavia Garbini, Ludovica Ottaviani, Valentina Poli, Stefano Ritrovato, Nora Sala
coordinatore Andrea Viotti
musiche Antonio Di Pofi
luci Giuseppe Filipponio
regia Gabriele Lavia
produzione Effimera, Diana Or.i.s.
Durata: 2h e 15’ minuti, con intervallo.
Fra i protagonisti più rappresentativi del nostro teatro, Gabriele Lavia ritorna con Il berretto a sonagli ad affrontare con straordinaria energia Luigi Pirandello, uno dei suoi più congeniali e amati autori.
Al Teatro della Pergola dal 17 al 22 gennaio Lavia dirige e interpreta con Federica Di Martino un testo amaro, ironico e crudele, specchio di una società “malata di menzogna”. Una menzogna continua, implacabile, corrosiva, di cui è vittima e artefice l’umile scrivano Ciampa, vecchio, invisibile, schiacciato nella morsa della vita e costretto a far scattare la “corda pazza” – quando la “corda civile” e la “corda seria” non servono più̀ – per mantenere una facciata di rispettabilità alla sua vita di uomo tradito.
Scritta in siciliano e poi riadattata in italiano, Il berretto a sonagli è dunque la tragicommedia che forse meglio mette in luce, fra le opere dello scrittore agrigentino Premio Nobel, vizi, meschinità, falsità e inganni del mondo contemporaneo. Intrecciando le due versioni e potenziando la spietata comicità del testo, Lavia ci pone a confronto con il primo esempio radicale di teatro italiano “espressionista”: una commedia nerissima e crudele, dove tutto viene accettato, tranne la verità.
Gabriele Lavia è una delle voci più appassionate ed efficaci del teatro di Luigi Pirandello. Il berretto a sonagli fu scritto dal Premio Nobel agrigentino nel 1916 in siciliano con il titolo A birritta cu i ciancianeddi per il grande attore Angelo Musco, cui la commedia non piaceva, e con la quale non ebbe successo: la regia di quel primo allestimento era di Nino Martoglio. Poi Pirandello tradusse il testo in italiano. Il protagonista, Ciampa, l’umile scrivano che ricorre alla follia per mantenere la facciata di rispettabilità del suo triste matrimonio, è il primo dei grandi personaggi pirandelliani a prendersi un’amara rivincita sulle umiliazioni di una vita.
«Non c’è dubbio – dichiara Lavia – che in siciliano questa commedia nerissima sia più viva e lancinante. Noi facciamo una mescolanza tra la prima e la seconda versione di questo specchio di una umanità che fonda la sua convivenza civile sulla menzogna. La verità – continua – non può trovare casa nella società umana. Solo un pazzo può dirla, perché tanto, si sa, “… è pazzo!”».
Il sottile confine fra l’essere e l’apparire, e il limite fra sanità di mente e pazzia, sono quelli su cui si muovono in precario equilibrio tutti i personaggi de Il berretto a sonagli, a cominciare proprio da Ciampa, ben al corrente della relazione fra sua moglie Nina e il Cavaliere Fiorica suo principale, ma accettata a patto di salvare le apparenze al cospetto della cittadinanza.
Ma la scoperta del tradimento da parte della moglie di lui, Beatrice Fiorica, interpretata da Federica Di Martino, e il suo desiderio di vendetta, che fa scoppiare lo scandalo pubblico con tanto di arresti in flagranza, vanno in qualche modo “sanati”: magari, facendo passare per pazza l’accusatrice che, a sua volta, potrà godere del beneficio che la società riserva soltanto ai pazzi, ovvero poter gridare in faccia a tutti la verità. In scena, quindi, un vecchio fondale e pochi elementi, relitti di un salottino borghese, dove viene rappresentato un pezzo di vita di una famiglia perbene che fa i conti con l’assillante angoscia del dover essere per gli altri.
«Tutta l’opera di Pirandello ruota attorno al “nulla” affollato di “apparenze”, di ombre che si agitano nel dolore e nella pazzia – sottolinea Lavia nelle note di regia – soltanto “i personaggi” sono “veri” e “vivi”[…] un nulla affollato da fantocci, da pupi. Da fantasmi umani», che l’attore e regista ha voluto presenti anche in scena, accanto agli attori che si aggirano e si agitano fra quei mobili sghembi e quei fondali strappati, come sghemba e spesso strappata è anche la vita, con le sue vicende umane sempre al limite fra coscienza e pazzia, realtà e apparenza, verità mai assolute, ma sempre relative e spesso sovrapponibili.
A fianco di Gabriele Lavia e di Federica Di Martino, sul palco del Teatro della Pergola dal 17 al 22 gennaio troviamo Francesco Bonomo (Fifì La Bella), Matilde Piana (La Saracena), Maribella Piana (la vecchia serva Fana), Mario Pietramala (il delegato Spanò), Giovanna Guida (Assunta La Bella), Beatrice Ceccherini (Nina Ciampa). Le scene sono di Alessandro Camera; i costumi sono ideati dagli allievi del Terzo anno dell’Accademia Costume & Moda Matilde Annis, Carlotta Bufalini, Flavia Garbini, Ludovica Ottaviani, Valentina Poli, Stefano Ritrovato, Nora Sala, coordinati da Andrea Viotti, che hanno vinto il Premio Le Maschere del Teatro Italiano 2022; le musiche sono di Antonio Di Pofi; le luci sono di Giuseppe Filipponio.
Note di Regia
Per Luigi Pirandello la vita è una “soglia” troppo affollata del “nulla”… E tutta la sua opera ruota attorno a questo “nulla” affollato di “apparenze”, di ombre che si agitano nel dolore e nella pazzia. Solo “i personaggi” sono “veri” e “vivi”. Il berretto a sonagli è una tragedia della mente. Ma porta in faccia la maschera della “farsa”.
Pirandello mette sulla scena un “uomo vecchio”, uno di quegli uomini “invisibili”, senza importanza, schiacciato nella “morsa” della vita e, poiché è un “niente di uomo” è trattato come se fosse niente: «Oh che ero niente io?». Questa “domanda disperata” nasconde la concezione di sé stesso, torturata e orgogliosa, di un uomo dissolto nel “nulla” del mondo, un nulla affollato da fantocci, da pupi. Da fantasmi umani. Che spiano e che parlano. Parlano parole già “parlate”, consumate.
E sul nostro palcoscenico, “come trovati per caso”: un vecchio fondale “come fosse abbandonato” e pochi elementi, “come relitti” di un salottino borghese, e “per bene”, dove viene rappresentato un banale “pezzetto” di vita di una “famiglia perbene” o di una “famigliaccia per bene” che fa i conti con l’assillante angoscia di dover essere “per gli altri”, di fronte agli altri. Come se la propria vita fosse, per statuto, una recita per “gli altri”, che sono gli spettatori ingiusti e feroci, della propria vita. Del proprio “teatro”. Vita di uomini che non sono altro che un segno che indica il nulla, fatto di apparenze, di fantasmi, di tutto quello che l’“io” è per gli altri. È l’“essere-per-gli-altri” a prendere il sopravvento perché l’“essere-con-gli-altri” è comunque il nostro “essere ineludibile”.
Ciampa “scrive”, ha un mondo suo, ma solo di notte, di nascosto, come i delinquenti, quando “gli altri” dormono. Ma di giorno: «Io sono quello che gli altri dicono che io sia». Io sono la doxa, il “si dice”. È proprio il “si dice” a “essere” la stessa sostanza identitaria del mio “io”. È il “segno” della perversione del mondo degli altri. Quel “mondo degli altri” che percepisce il mio mondo come, appunto, il mio mondo (il mio essere) “appare” a lui, a quel mondo che “non” sono “io”.
Ma chi sono “io”? Chi è questo “io”? Questo “io” che è uno, nessuno e centomila. Questo “io” è “uno” con me stesso e “un altro io” con ognuno degli altri “io” che vivono nella “società dei pupi”: «Pupi siamo… Pupo io, pupo lei… Pupi tutti…». Questo “io” è determinato, nel suo essere, dalle centomila interazioni sociali, amorose, erotiche, amicali che quelle “interazioni” contribuiscono a frammentare.
È questo “io” fatto a pezzettini che non ha più scampo. L’unica speranza è difendere l’“io” dall’aggressione degli altri. Ma come? Ciampa usa spranghe alle porte, catenacci, paletti per difendere il suo “io”. Ma non ci riesce. È costretto a uscire, a “sporcarsi le mani”, direbbe Sartre. Esistere. Ma esistere vuol dire “mettere in gioco” sé stesso.
E allora la “corda civile” e la “corda seria” non servono più. È la “corda pazza” che scatta. E scatta per tutti. Non si può difendere il proprio “io” dagli attacchi del mondo. Non è possibile uscire dal mondo, uscire da noi stessi. Se lo facciamo siamo morti viventi.
Gabriele Lavia
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Matteo Brighenti