Dolore cronico e stigma
Un problema delicato: lo stigma associato al dolore cronico. Lo stigma sperimentato da individui con dolore cronico influisce infatti sulla loro intera vita. La letteratura identifica molteplici dimensioni o tipi di stigma, tra cui lo stigma pubblico, lo stigma strutturale e lo stigma interiorizzato.
Il dolore cronico è uno dei motivi più comuni per cui le persone si rivolgono al medico ed è una delle principali fonti di sofferenza umana e disabilità nel mondo. L’OMS, in collaborazione con l’Associazione Internazionale per lo Studio del Dolore (IASP), ha proposto una nuova definizione di “dolore cronico”, aggiornando la Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD-11), per concentrarsi sul dolore cronico come priorità sanitaria globale. Il dolore cronico è definito come dolore persistente o ricorrente che dura > 3 mesi e colpisce > 30% delle persone in tutto il mondo. Esempi di condizioni di dolore primario cronico includono la fibromialgia, la sindrome dolorosa regionale complessa, l’emicrania cronica, il disturbo temporomandibolare, la sindrome dell’intestino irritabile e il dolore lombare e cervicale non specifico.
Chi soffre di dolore cronico può sentirisi dire frasi del tipo: “Il dolore è tutto nella tua testa”, “Devi essere pazzo”, “Se sembri sano, non puoi soffrire”, “Devi avere il controllo completo su tutto nella tua vita”, “Vuoi solo attenzione”, “È solo ansia” e “Deve essere bello non lavorare”.
Diversi fattori contribuiscono allo stigma correlato al dolore cronico: l’assenza di chiare prove mediche, come un chiaro danno tissutale, che non si adatta al modello biomedico ampiamente accettato, l’invisibilità dei sintomi del dolore e la soggettività della valutazione del dolore. Tra le condizioni di dolore cronico, lo stigma dell’emicrania è stato uno dei più durevoli e notevolmente stabili nel tempo
Lo stigma è presente anche in contesti clinici, causando sottovalutazione e sottovalutazione del dolore da parte del personale sanitario, con scetticismo e sospetto sulla realtà della sofferenza, con la tendenza ad attribuire un dolore di entità inferiore nelle valutazioni, con conseguente sottotrattamento e iperpsicologizzazione del dolore.
Vari articoli pubblicati recentemente supportano il modello biopsicosociale del dolore, secondo il quale le variabili biologiche, psicologiche e socioculturali interagiscono in modo dinamico per modellare la risposta di un individuo al dolore cronico. Quello che emerge è che la formazione degli operatori sanitari per quanto riguarda la valutazione del dolore è inadeguata, da cui può esserci insicurezza nel gestire i pazienti con dolore cronico.
Una strategia di intervento di prima linea potrebbe essere quella di promuovere la formazione sulla malattia dolore e di ampliare la conoscenza e la valutazione del dolore cronico, come recentemente evidenziato per i disturbi della cefalea, paradigmaticamente per l’emicrania resistente o refrattaria, la cui diagnosi, senza un’adeguata formazione a comprendere le possibili fluttuazioni del malattia, può avere profonde implicazioni psicologiche con l’idea di insolvibilità e contribuire a stigmatizzare il paziente.