CONCLUDE LA STAGIONE DEL TEATRO STABILE DI TORINO UN DITTICO DI TRAGEDIE DI EURIPIDE “IFIGENIA” E “ORESTE” PER LA REGIA DI VALERIO BINASCO
In scena in prima nazionale, a partire dal 24 maggio 2022, alle Fonderie Limone
In chiusura di Stagione, Valerio Binasco dirige due nuove produzioni del Teatro Stabile di Torino: IFIGENIA e ORESTE di Euripide che andranno in scena alle Fonderie Limone di Moncalieri, dal 24 maggio al 12 giugno 2022.
Le due tragedie sono interpretate da: Giovanni Anzaldo, Sara Bertelà, Valerio Binasco, Giovanni Calcagno, Giovanni Drago, Giordana Faggiano, Jurij Ferrini, Nicola Pannelli, Letizia Russo, Arianna Scommegna e Matteo Leverano.
Le scene e luci sono di Nicolas Bovey, i costumi di Alessio Rosati, le musiche di Paolo Spaccamonti. Assistenti alla regia Giulia Odetto e Micol Jalla, assistente costumi Agnese Rabatti.
Il debutto dei due spettacoli in prima nazionale alle Fonderie Limone è programmato:
_martedì 24 maggio, alle ore 20.45, per IFIGENIA
_mercoledì 25 maggio, alle ore 20.45, per ORESTE.
Fino al 12 giugno i due spettacoli saranno replicati alle Fonderie Limone a sere alterne, dal martedì al venerdì alle ore 20.45, mentre il sabato e la domenica saranno previste delle maratone che permetteranno la visione consecutiva dei due spettacoli.
Le recite per la CRITICA dei due spettacoli sono programmate:
_sabato 28 maggio (ore 19.30 IFIGENIA e ore 21.30 ORESTE)
_domenica 29 maggio (ore 15.30 IFIGENIA e ore 17.30 ORESTE).
Il Direttore artistico del Teatro Stabile, Valerio Binasco, prosegue la sua ricognizione del repertorio classico intrapresa fin dal suo approdo al vertice dell’Ente, proponendo alle Fonderie Limone IFIGENIA e ORESTE: un dittico di tragedie che, partendo da Euripide, ma attualizzandone i temi, seguirà un ideale percorso di indagine nel dolore dei figli e nella cupa solitudine della famiglia. La capacità di rendere vivi e contemporanei i classici del repertorio facendoli dialogare col nostro presente attraverso la centralità dell’attore e del testo è uno dei fattori distintivi della poetica di Binasco.
Ifigenia e Oreste sono due vittime, passiva e sottomessa la prima, destinato al delitto e dunque al rimorso il secondo. Quando il destino li riunisce, fratello e sorella potranno liberarsi dal peso del passato, dalle colpe della propria casata, perché entrambi sono spiriti gentili, ma determinati a sfuggire a un futuro di sofferenza.
«Dopo diversi anni che metto in scena commedie – scrive Valerio Binasco nelle sue note – mi confronto con una Tragedia Classica. Vorrei affrontarla senza fronzoli stilistici, restando fedele come posso a una idea generale di “tragedia”, ovvero, per come pare a me oggi, uno spettacolo dove si vedono il dolore estremo e il caos dentro al quale, quando la sofferenza prende possesso della vita, vanno ad affogare uno ad uno tutti i sentimenti e i pensieri umani […]. Posso dire di saperne qualcosa, io, di questo dolore estremo? No. O forse sì, ma giusto “qualcosa”. Il dolore estremo è in me, lo conosco così come conosco la morte, l’estasi, la tortura, la felicità, la furia, il volo. Tutte esperienze che non ho vissuto, ma che in qualche modo conosco, perché abitano misteriosamente in me, eredità immaginaria di altri esseri umani. Non conosco quindi, ma “so”.
IFIGENIA deve essere uno spettacolo severo, spoglio di attrazioni visive fini a se stesse, deve essere uno spettacolo semplice e a suo modo estremo, almeno nella ricerca che investe la recitazione e quindi i sentimenti umani. So bene che la Tragedia Greca porta con sé un fardello di aspettative formali, una delle quali deve fare i conti con la religione e i misteri di un’umanità lontana. Ma depongo volentieri questo fardello. Cerco la mia vicinanza e non mi faccio irretire dalla vertigine della distanza. Non la vedo neppure, a dire la verità. Mi limito a dire – mettendo un po’ le mani avanti – che venendomi a mancare, uomo del mio tempo, la complessità religiosa, mi manca anche il gusto per la componente “liturgica”, che sembra necessaria per accostarsi a una tragedia di questa portata. La forma “liturgica” spesso incoraggia gli interpreti a una densa, quanto in fin dei conti frivola, spettacolarizzazione o alla ritualizzazione in stile arcaico. Però, proprio grazie al fatto che sono un uomo del mio tempo e che del suo tempo vuole parlare, ho invece ben presente soprattutto la concretezza psicologica contenuta in questa antica favola tragica: voglio assumermi tutte le responsabilità nel tutelare questa sensibilità contemporanea, essendo in qualche modo certo che la nostra condizione umana è sempre e comunque illuminata dalla rappresentazione mitica, ne è svelata, anche se del mito ci sfugge la profondità sacra. Non credo infatti che sia vero che i protagonisti dei miti siano solo dei modelli archetipici, privi di autentiche analogie con gli esseri umani contemporanei. Al contrario credo che certe paure, certi dolori archetipici, siano ben presenti anche in noi, e che dentro a ciascuno di noi si svolga una vita che è sia “dentro” che “fuori”, sia secolare che sacra, sia mitologica che patologica. Ogni essere umano vivente è un archetipo. E viceversa […]. In questa storia così archetipica, eppure così personale, alla base di tutto non c’è solo l’oracolo di un dio, ma soprattutto la patologia di un padre-comandante.
L’ORESTE tragico di Eschilo è diventato in Euripide un attentatore psicopatico, come la cronaca contemporanea ne conosce tanti, che reagisce con estrema ingiustizia e violenza a un mondo che gli sembra ingiusto e violento. In questo dramma di Euripide c’è una specie di lieto fine, ma per arrivare a tanto occorre l’intervento degli Dei. Non mi importa che nel finale Euripide faccia entrare in scena Apollo in persona che in poche battute rimette tutto a posto. L’ingresso in scena di Dio per risolvere il finale, ex machina o no, è un espediente teatrale, e come tale è legato a un’epoca, a un gusto, a una “moda” culturale.
[…] occorre sbarazzarsi di tutto ciò che appartiene agli espedienti letterari (e teatrali) in uso nell’epoca in cui l’opera fu pensata. Me ne sono sbarazzato, senza rimpianti. Quel che resta, è l’azione pura. È un grumo di verità che resiste ai millenni, e resiste perfino ai registi. Se decido di cercare la vita dentro a quel grumo di verità superstite, allora mi risulta impossibile pensare che Oreste venga salvato da Apollo. Oreste è solo. Non c’è nessun Apollo cui dare la colpa.
Credo che, in fondo, perfino Oreste lo sappia. E allora? Come finisce? Oreste si condanna da solo, insieme a sua sorella e a Pilade, commettendo una strage».