Presentazione del masgalano 2023 offerto dagli archivisti delle 17 contrade
Buonasera.
È un grande onore presentare alla città il masgalano offerto dagli archivisti delle diciassette contrade, che ringrazio tutti di cuore: è per me stato un privilegio aver condiviso assieme a loro questa impresa.
La realizzazione dell’opera è stata affidata alla bottega orafa Il Galeone di Siena, che nel contesto di un libero concorso indetto dagli archivisti ha saputo interpretare al meglio i gusti della committenza.
Il Galeone nasce nel 1998 grazie all’unione di Giovanna e Federico, entrambi orafi.
Giovanna è un artista che proviene dalla scuola di scultura, e già all’età di sedici anni frequenta il laboratorio del maestro Passerini a Siena, dove si forma professionalmente e grazie all’incoraggiamento del proprio maestro inizia la propria attività professionale, partecipando con i suoi lavori a fiere ed eventi internazionali, dove incontra Federico, con cui condivide la passione per l’oreficeria, e con cui inizia una collaborazione che li porterà ad aprire un vero e proprio laboratorio bottega nel centro storico di Siena.
Dal 2004 entra a far parte del Galeone anche Caterina, una delle più promettenti allieve del corso di oreficeria all’Istituto d’arte di Siena, diretto da Giovanna.
Il continuo studio di nuove forme, la ricerca di nuovi strumenti di lavoro, accompagnata all’uso delle tecniche tradizionali, hanno permesso nel tempo al Galeone di farsi conoscere alle mostre artigiane nazionali ed internazionali, così che nel 2015, Giovanna e Federico ricevono dalla regione Toscana l’attestato di Maestri artigiani; in seguito, nel 2018, l’Osservatorio dei Mestieri d’Arte (OMA) riconosce il Galeone nelle eccellenze artigiane italiane.
Si deve essere grati a tutte questi professionisti, che mediante le loro botteghe, con estro e capacità, permettono di tenere vive quelle conoscenze artistiche e professionali che hanno da sempre costituito un vanto per Siena.
Modellare il metallo, nel caso specifico l’argento, richiede pazienza, forza ed anche dolcezza nel manovrare gli strumenti che permettono di creare l’oggetto d’arte, il quale – tengo a dirlo- : è realizzato interamente a mano, senza fusione.
L’approccio ad un opera come il drappellone o il masgalano, non è scontato per un artista moderno, perché deve ideologicamente seguire i presupposti dell’arte tradizionale: infatti l’oggetto che dovrà realizzare possiede già una cornice simbolica efficace, è un premio ambito dalle contrade, e questo conferisce di per sé un valore all’opera stessa a prescindere dall’aspetto artistico.
Il compito dell’artista è quindi quello di riempire la “cornice” con un oggetto bello: egli deve avere la capacità di innalzare un oggetto comune alla dignità del contesto che rappresenta.
Più la cornice ideale è bella più il compito dell’artista diventa arduo.
(e nel caso nostro la cornice è immensamente bella!)
Gli artisti del Galeone hanno materializzano questa ideale cornice mediante il bacile in argento, che costituisce la base fisica e concettuale dell’opera, formata da un piatto in argento sbalzato a mano, sul cui bordo sono rappresentate, su disegno originale, le diciassette contrade con la propria impresa, realizzate in argento con le tecniche del traforo, cesello, saldatura a fiamma e brunitura, disposte in ordine alfabetico in senso orario (quello della corsa del palio).
Cimentarsi nella creazione di un bestiario originale delle contrade è qualcosa di gratificante e complesso allo stesso tempo, perché un artista si misura con araldiche antiche, che si sono raffinate nel corso di oltre cinquecento anni.
Non sono banali stemmi, ma sono dei talismani totemici che proteggono i propri popoli.
Nel bordo superiore infine si trovano, in apologetica protezione delle consorelle, rappresentati gli stemmi del Comune di Siena, del Magistrato delle contrade e del Comitato amici del palio impreziositi da una bordatura in oro a 18 carati.
Il cuore del bacile è riempito di elementi che rimandano al fondamentale ruolo degli archivisti, che è quello di conservare e tramandare le nostre memorie.
Sulla parte sinistra si trova un libro aperto in argento, ad altorilievo realizzato con la tecnica dello sbalzo, in una pagina del quale è rappresentata, incisa a mano con bulino e fresa, la vista di Siena, ripresa da una raffigurazione pittorica di Sano di Pietro, mentre nell’altra pagina è riportata la frase tratta dal De Oratione di Marco Tullio Cicerone : “La memoria è tesoro e custode di tutte le cose”.
Il libro è completato da una copertina in rame sapientemente patinata.
La memoria e la sua conservazione, sono il tema che sta alla base di questo masgalano, e sono anche il senso stesso di un archivio di contrada, perché è davvero difficile immaginare il futuro per le nostre contrade senza una memoria.
A fianco del libro si trova una penna d’oca, strumento iconografico che completa il rimando al lavoro svolto dagli archivisti, eseguita anche questa in argento e modellata con la tecnica del traforo, sbalzo, cesello, saldatura a fiamma e brunitura finale.
Gli elementi appena descritti che emergono nel centro del bacile, sono adagiati in un letto di tufo che porta le tracce degli zoccoli, a testimoniare l’avvenuto passaggio dei barberi, realizzato in terracotta, modellata e stratificata.
La terracotta rappresenta nel panorama artistico odierno un medium potente e funzionale al linguaggio espressivo contemporaneo, ingloba in sé i quattro elementi fondamentali di tutte le cosmogonie: la terra, madre generatrice delle nostre radici, l’acqua nutrice che la plasma, l’aria che la consolida ed il fuoco che la purifica rendendola eterna.
La Sapienza messa dagli artisti del Galeone nell’uso dei materiali e la loro capacità di modellarli, riescono quindi a trasmettere in maniera immediata, a chiunque osservi l’opera, il valore che gli archivi hanno per le nostre contrade.
È un masgalano di facile lettura per un senese, anche se intriso di simbolismo e carico di significato; nessun elemento che compone l’opera è casuale, ed ognuno di questi occupa un preciso posto ed un preciso significato.
L’opera prende origine dal concetto classico del bacile in argento e si sviluppa in una chiave moderna inserendo l’elemento della terracotta da cui emergono gli strumenti della memoria e della sua conservazione.
E sta proprio in questo la chiave di lettura: conservare e proteggere la tradizione, senza aver timore di usare i nuovi strumenti che ci mette a disposizione la tecnologia, non usiamo più la penna d’oca ma tablet e pc che ci permettono di salvaguardare e proteggere la nostra storia con ancora più precisione ed attenzione.
Avere cura del passato significa prendere coscienza del futuro.
Riccardo Manganelli
Presentazione del Drappellone di Roberto di Jullo
26 giugno 2023
Roberto di Jullo. Il pittore dei cavalli che danzano
Hanno una caratteristica particolare le figure di Roberto Di Jullo: non mostrano fissità, ma sembrano colte – sempre e tutte – in un movimento di danza.
Danzano i cavalli dei suoi quadri. Danzano le donne che, anche quando sono sedute e apparentemente immobili, danno vita a un respiro che ha il sapore di un’antica danza sacra di sapore antico, classico.
Le figure sembrano comunicarsi, fra sé, movimento e armonia; i cavalli si intrecciano in un segno che è moto e energia pura, avviluppati in un nodo che sviluppa forme nuove, materia indisciplinata e riottosa a ogni coercitiva domesticazione.
Eccolo qua il Drappellone di questo Palio di luglio 2023: al centro lo slancio dei cavalli supera il canape in caduta, reso tridimensionale dal gioco dei chiari e degli scuri, e si getta nella corsa che, però, non allude, scontatamente, ai tre giri di Piazza, perché le figure esplodono in maniera centrifuga, insofferenti dello spazio nel quale sembrano essere costrette, e si slanciano a sfondare le linee di confine del drappellone, trasformando il momento immanente nella proiezione di un altrove di assolutezza.
Volevate una metafora più forte di questa per definire la corsa senese?
Ogni corsa, ogni carriera è, certo, un qui e ora, ma è anche il ricongiungersi del banale tempo dell’evento con un tempo metafisico della nostra festa, che non appartiene al contingente, bensì al “sempre” della sua storia, in cerca di una desiderata dimensione di eternità.
Ma se l’irrequieto groppo dei cavalli occupa il centro della scena, quel che c’è intorno, dietro e sotto è un completamento concettuale che volutamente evoca e intreccia sensazioni e emozioni.
Quel che si intravede dietro i cavalli che irrompono è un nembo biancastro, un’evocazione della polvere che si leva al loro galoppo.
Un nembo? Ma nemmeno per sogno.
Da quell’evanescente e confuso biancore emerge una battaglia, controscena della battaglia che in primo piano si danno i cavalli, con cavalieri che si scontrano violentemente, mentre due di loro, con un gesto del braccio, sembrano indicare la figura della Madonna in quella che (si lascia all’interpretazione di chi osserva) può essere tanto un’invocazione quanto una convocazione sulla scena. E dal tutto, si levano – sempre verso la Madonna – striature evanescenti come cirri leggeri: una metafora di preghiera? o il manto protettore della Vergine su tutta la narrazione? Personalmente propendo per quest’ultima interpretazione perché quelle linee evocano il canto d’amore, di scarico della tensione, di gratitudine che si urla a squarciagola – musicalmente sgraziato, ma stonatamente armonico – che ciascuno di noi (credente o no: questo non importa), col groppo in gola e gli occhi umidi, innalza quando tutto è compiuto. Quel “Maria Mater” che sigilla l’atto finale della vittoria conquistata. La battaglia allusa, appena accennata, suggerita da di Jullo dietro le possenti muscolature in tensione dei cavalli è dunque il compendio concettuale del Palio. Velocità, potenza, scardinamento di ogni protocollo, tenzone, battaglia.
Tutta questa drammaticità trova un inaspettato contrappunto nella corona di donne accovacciate e sedute, in basso, con indosso i colori delle dieci contrade, in una composizione di movimenti che, di nuovo, fa danzare le figure. Donne rese nelle forme morbide, arrotondate, ovoidali, anche opìme, dei loro posteriori (e in questo caso sarebbe quasi doveroso – per quanto inopportuno data la presente circostanza – usare un altro termine, plebeo, ma ben più evocativo per designare questa parte del loro corpo). Donne mediterranee, le cui forme (secondo un modulo pittorico che di Jullo elabora correntemente per la sua pittura) convocano una voluta e insistita a-retoricità, sottolineata anche dalle fogge delle loro capigliature, raccolte in rassicuranti, materni, chignon.
Donne che, nel caso del nostro drappellone, guardano con partecipazione la scena, con i volti in alto e le bocche aperte in un urlo; che ignorano chi le osserva di spalle, tranne una (senza colore di contrada: allusiva di quelle che non corrono, perché di Jullo le ha volute ricordare tutte e diciassette, perché tutte e diciassette le ama) che guarda chi l’ha dipinta, come di regola in tutte le rappresentazioni di gruppi femminili del pittore.
Donne evocatrici di fertilità, presentate come depositarie non solo della prosecuzione della vita fisiologica, ma anche di quella della passione, della cultura e della memoria condivisa. In altro contesto, sarebbe venuto spontaneo rinviare alle riflessioni di Bachofen o di Malinowski o a quelle più recenti della nuova antropologia e del suo concetto di “matricentrismo” (non “matriarcato”, che è concetto diverso e altrettanto urticante quanto quello di “patriarcato”), ma tranquilli: non è questo il luogo, non è questo il momento. Se volete parlatene, tuttavia, con lui, il pittore, e capirete quanto, di tale complesso aspetto delle strutture relazionali, stia dietro un semplice gioco di forme femminili dagli ampi fianchi.
La Madonna sovrasta tutta la scena: una Madonna dal volto dolce, ma dall’espressione attraversata da una sorta di segreto motivo di mestizia. Una Madonna che, in realtà, è un busto di ceramica a immagine di quella venerata in Provenzano, come ce ne sono ovunque.
Il senso di questa scelta è preciso: non è un espediente iconografico frutto di ricerca di originalità, bensì la volontà di raffigurare una Madonna che non sta nei Cieli lontani; questa è la Madonna che convive con la nostra quotidianità; quella che incontriamo per la strada sui muri, e alla quale, furtivamente, velocemente, magari anche distrattamente, ma non senza partecipazione, si lancia un’occhiata. Di preghiera (chi crede) o di affettuosa co-appartenenza, come si fa con chiunque è parte della nostra comunità (e questo lo facciamo tutti: credenti o no).
I cromatismi che illuminano il drappellone, e il loro risultante, finale concerto sottolineano proprio questo senso di serena convivenza fra immanenza e trascendenza; sciolgono le immagini di tensione in acquietanti abbandoni. Alla fine di ciò che ha creato spasimo c’è qualcosa che ci avvolge, ci rassicura, ci dà fiducia e speranza.
Di Jullo è riuscito, insomma, a unire in questa composizione che abbiamo sotto gli occhi alcuni concetti/sensazioni che, almeno in apparenza, difficilmente paiono poter convivere: irruenza, serenità, inquietudine, ironia.
Bisogna essere davvero dei maestri per riuscire a tenere insieme così armonicamente registri tanto differenti.
Questi sono i concetti pittorici chiave dell’intera sua opera. Chi abbia avuto modo di visitare la mostra delle sue opere che, in questi giorni, è ospitata presso il Palazzo Sansedoni, alla Fondazione Monte dei Paschi, e chi si ricorda della personale di Roberto di Jullo ai Magazzini del Sale nel 2019 ben se ne rende conto. Il suo percorso artistico si riassume in questi stilemi, caratterizzati dalla scelta della centralità dello “scheletro”, dell’impianto della figura. Io – dice di Jullo – più che pittore mi sento disegnatore e per un disegnatore l’impianto dell’immagine è fondamentale.
E questo se lo porta dietro fin dai suoi primi passi nel mondo dell’immagine rappresentata.
Nato a Forlì del Sannio nel 1945, segue per cinque anni la Scuola d’Arte a Isernia (facendosi oltre 60 chilometri tutti i giorni), prima di spostarsi all’Accademia di Belle Arti di Napoli per poi trasferirsi, nel 1964, a Roma dove entra in contatto con la Farnesina e gli Istituti di Cultura Italiana all’Estero, configurandosi, per questo, come ambasciatore dell’arte e della cultura italiane in una serie di Paesi, soprattutto del Mediterraneo: è a Tunisi, a Algeri, a Atene, a Salonicco, fino alla Turchia.
Impara ad avvalersi di tutte le tecniche, partendo dall’acquaforte e dalla puntasecca su lastra di rame, per approdare alle altre, senza mai acquietarsi su una anziché un’altra. Irrequieto e incoercibile nella tecnica quanto nello stile. Alla mia domanda “chi fuor li maggior tui?”, a chi ti sei ispirato?, chi senti artisticamente vicino?, mi è stato risposto con una risata. Nessuno. Ho avuto contatto – soprattutto a Roma – con quanto di meglio c’era e c’è sulla scena dei maestri della pittura (qualche nome? De Chirico, Vespignani, Sughi, Attardi) però non ho mai aderito ad alcuna corrente, ad alcun movimento, né ho avuto alcun speciale autore cui ispirarmi. Ho sviluppato quei temi che sentivo miei nelle forme che sentivo mie: ritratti, paesaggi, donne (appunto) e cavalli.
Cavalli, sì, ma quello che oggi è uno dei soggetti-chiave di di Jullo entra, forse proprio per ultimo nel suo atelier: sostanzialmente dal 1973 quando una mostra presso un circolo ippico lo porta ad affrontare questa figura, che egli rappresenta con maniacale precisione, favorito dalle acquisizioni tecnico-anatomiche apprese nell’adolescenza. I suoi cavalli non sono mai resi in forma simbolica, astratta o allusa. Hanno fasci muscolari scolpiti, anatomie correttissime, perché di Jullo, l’anatomia, l’ha studiata a fondo e i cavalli che raffigura potrebbero comparire nelle tavole di un trattato di veterinaria.
Il soggetto diventa, da questo momento, una delle sue cifre caratterizzanti e identificative: “E’ stato ed è questo il suo tema preferito” scrive di lui Francesco Sabatini, suo, per così dire, compaesano perché è nato a Pescocostanzo, dove il pittore ha il suo atelier. Sabatini, oggi Presidente emerito dell’Accademia della Crusca, è il dominus della lingua italiana che nel 2001 commissiona a di Jullo una delle tradizionali, accademiche “pale”, che il pittore realizza rappresentandovi un contadino che ventila il grano, corredata dell’impresa araldica “L’aura mi volve et son pur quel ch’i m’era” (Petrarca, Canzoniere, 112, verso 4). E, continua sempre Sabatini, il tema (quello del cavallo) “si rinnova di opera in opera, con tutte le variazioni possibili. Il collo proteso ora verso l’alto, ora verso una meta invisibile, ora in una torsione che rivela lo spasimo”. I suoi cavalli non hanno ferri, non hanno finimenti, si affiancano l’un l’altro, perfino si aggrediscono o sembrano baciarsi, perché i cavalli per lui sono metafora della vita che alterna e fa convivere aggressività e amore.
Di Jullo negli anni della “dolce vita” di un’Italia lanciata verso il futuro e piena di ottimismo e speranze, a Roma (dove peraltro ancora lavora) si muove nel campo dell’illustrazione pubblicitaria, della scenografia (conosce Fellini, Carmelo Bene, collabora con il Festival di Spoleto per quattro rappresentazioni teatrali nel 1967). E’ collaboratore grafico per i progetti didattico-audiovisivi del Ministero della Pubblica Istruzione (tavole 21×28 realizzate a pennello e con gli script fatti con i letraset: preistoria pura). Viene chiamato quale disegnatore dei servizi del Telegiornale RAI, ma quando gli offrono il contratto per un posto fisso risponde “no grazie”. San Filippo Neri avrebbe detto “preferisco il Paradiso”, lui dice “preferisco restare libero”. Che è più o meno la stessa cosa.
La capitale e i suoi sirenici richiami, ben lo si capisce, non lo irretiscono: il legame con la sua terra sannitica non viene mai reciso: perfino in questo drappellone due minuscoli stemmi, appartati, discreti, ma tanto garbatamente quanto orgogliosamente presenti, convocano la sua origine: quelli del Molise e di Pescocostanzo, che, in questo caso, sono il suo manifesto di una coniugazione con la nostra, di terre, perché di Jullo li incastona in una sequenza che li vede affiancati alla Balzana senese e al simbolo della Toscana.
Questo Palio, del resto, non è stato prodotto nel suo atelier di Pescocostanzo e nemmeno in quello di Roma. E’ nato qui, a Siena, nello studio di un altro pittore di drappelloni, Tommaso Andreini, un artista al quale di Jullo si è appoggiato in una sorta di “laboratorio” d’antico stampo, caratterizzato da due artisti che si intendono, si comprendono, si scambiano impressioni e suggerimenti. Ed è stato dipinto, il drappellone di questo 2023, sullo stesso tavolo sul quale è stato partorito quello del 2016. Se fatto altrove, il Palio di di Jullo non avrebbe avuto, probabilmente, lo stesso carico di emozioni, lo stesso “sapore”. Ci voleva Siena, ci volevano i suoi colori, i suoi rumori, le sue luci, le sue sensazioni, la sua gente. E di Jullo ha fatto, proprio per questo, per mesi, un bagno di “sienitudine”, girando per le strade e soprattutto parlando con i senesi, continuativamente, con tutti (credo, anche con i colonnini di Piazza) per entrare dentro questa città e respirare con questa gente particolare. Parlando di Palio, sì, di Contrada, certo, ma anche di vita normale, quotidiana, di storie personali, a volte perfino piene di dolore e di tristezze. Perché è così che si capisce una comunità, è così che si capisce una città, che si capisce quel che pensa e sente. L’omaggio che di Jullo ha fatto a questo modo di essere di noi senesi sta in un piccolo, quasi appartato particolare: fra i cavalieri che combattono spunta la piramide del Colle di Montaperti, per far capire che quella non è l’evocazione di una qualsiasi scena di guerra, ma è l’evento che non si scolla (purtroppo o per fortuna: comunque inevitabilmente) dalla memoria collettiva di questa città.
A di Jullo è capitata una cosa buffa: qualcuno gli ha detto “Ma lo sa, maestro, che il Palio di luglio, lo dipinge sempre un senese?”.
Non è vero, lo sappiamo: da tempo non è più così. Però questa volta l’interlocutore del pittore ci ha dato.
In questo caso, il drappellone l’ha davvero dipinto un senese. Che sia nato altrove è un epifenomeno trascurabile, perché Roberto di Jullo ha scelto Siena come una sua altra terra di arrivo e tutto ci dice che questa città lo ha sentito e accolto come figlio suo: come senese.
Duccio Balestracci
Archivisti delle 17 Consorelle
Presentazione della Committenza per il Masgalano 2023
Buonasera Signor Sindaco, buonasera agli Onorandi Priori, a tutte le autorità presenti e a tutti i senesi che stasera rinnovano la loro grande Festa.
Finalmente! Finalmente siamo qui , finalmente siamo riusciti ad arrivare a questo momento atteso da tanti anni, fin dal Febbraio del 2016, finalmente riusciamo a donare a Siena e alle sue contrade il nostro Masgalano.
E’ stata un’attesa lunga, davvero tanto lunga, anni che ci hanno visto sempre determinati però a raggiungere il nostro scopo, supportati di continuo dai nostri Priori, a cui voglio dire un forte “ Grazie!”.
Quest’idea è nata quasi per gioco in una fredda serata d’inverno durante una chiacchierata tra gli Archivisti delle 17 consorelle.
“Archivisti per passione, amici per scelta”, questo è stato il motto che ci ha animato fin dall’inizio, da quando cioè, andando dietro alle frequenti istanze dell’allora Decano degli Archivisti Francesco Fusi della Torre e con l’aiuto informatico di Giacomo Cancelli ( in quegli anni Archivista della Nobil contrada dell’Oca) , tutti insieme abbiamo dato vita al quarto Quaderno del Magistrato su “ I sonetti delle Vittorie negli Archivi di Contrada”.
Un lavoro meticoloso che ha prodotto un libro che è risultato essere la sintesi perfetta fra le parole scritte e la moderna tecnologia, un progetto di grande precisione portato avanti da tutti con impegno ma anche con la gioia di incontrarsi e collaborare , di condividere quello per cui le nostre contrade ci hanno chiamato a lavorare.
Perché gli Archivisti per l’appunto, si occupano degli Archivi, quel patrimonio storico che ci permette anche oggi, in un’epoca in cui la carta stampata è sempre meno importante, di conservare, cercare, trovare, fare scoperte, studiare ciò che ci è stato lasciato in eredità.
Il gruppo degli Archivisti delle 17 Consorelle nasce proprio con l’ottica di aiutarsi a condividere i progetti, fermo restando la propria peculiarità e caratteristiche.
Perché se è vero che l’Archivista è quella persona che in Contrada trovi china per ore a leggere vecchi verbali di Assemblee di secoli fa dove viene descritto un mondo tanto diverso da quello attuale, è altrettanto evidente quanto è bello condividere queste informazioni con coloro che con te condividono questa passione.
Si fa presto a parlare di verbali, e storie, ma se ci si pensa un attimo, quella che oggi è una email, 50 anni fa era un invito scritto a mano ed inviato in buste di carta patinata e color paglierino, quello che oggi è il replay su Youtube del Palio era una descrizione minuziosa riportata con bella calligrafia su un librone rilegato a mano, mentre l’attuale Rid su un conto corrente bancario era il soldo di un ciabattino per l’acquisto di un bandierone o per il restauro di un tabernacolo che acquisiva nei libri contabili la stessa dignità dell’offerta del ricco Capitano o del Priore.
Ma l’Archivista di Contrada fa questo: cerca descrizioni di eventi nascosti in qualche piccola raccolta dimenticata in vecchi armadi, setaccia le cronache per un ricordo di un accaduto, meglio ancora se sconosciuto o andato dimenticato con il passare degli anni.
Questi siamo noi, gente che ama leggere, studiare e confrontare antiche scritture con moderni testi, a cui riesce facile entusiasmarsi leggendo le parole scritte su una dedica ai protettori in occasione del giro del Santo Patrono di tanti anni fa , gente che ama lavorare nel silenzio delle proprie stanze completamente rapita da appassionanti letture di antichi manoscritti.
Direte “questi sono matti!” ma la passione produce anche questo!
Prima di concludere, però, è doveroso fare un po’ di cronistoria su come siamo arrivati qui:
Nel 2015 oltre ai consueti ottimi rapporti istituzionali tra noi abbiamo cominciato quindi a collaborare grazie anche alla conoscenza personale che pian piano si è trasformata in grande amicizia, un sentimento schietto e sincero, forte e saldo che ci ha permesso in questi anni di raggiungere obbiettivi che mai prima d’ora erano stati raggiunti.
Nel 2019, come ho detto, esce il “Quaderno del magistrato su “ I sonetti delle Vittorie negli Archivi di Contrada”, un lavoro auspicato e iniziato con il Rettore del Magistrato di allora Nicoletta Fabio (il nostro Sindaco attuale con cui vorremmo continuare questo bel rapporto di stima e collaborazione) e terminato con il rettore Pierluigi Millozzi.
Nel frattempo portavamo avanti l’ambizioso progetto , poi realizzato, di un ciclo di 3 conferenze che hanno visto la partecipazione di tantissimi contradaioli e non, gentilmente ospitati dalle Direttrici De Gramatica e Cardinali nella sala conferenze dell’Archivio di Stato di Siena , sempre stracolmo di gente in tali occasioni.
Giovanni Mazzini (archivista della contrada della Tartuca) nel 2018 ci parlò di “Origini storiche del Palio delle Contrade fino al primo Palio alla tonda”;
Armando Santini (archivista della contrada capitana dell’Onda) nel 2019 tenne un conferenza sul tema “Le regole della Festa – Dalle prime carriere al Palio moderno” ;
e dopo il forzato stop dovuto alla pandemia, Margherita Anselmi Zondadari (ex archivista della contrada della Selva) nel 2023 ha concluso questo ciclo parlando del “Corteo storico tra 800 e 900”.
Tre temi che hanno aperto nuove prospettive sia nello studio di questi argomenti a noi tutti tanto cari, sia nel rapporto fra gli archivi di Contrada e l’intera città. Uno sforzo organizzativo enorme per un gruppo come il nostro di gente che si affacciava alla ribalta della vita cittadina in punta di piedi e per la prima volta.
E in questi anni con quanta gioia abbiamo partecipato in massa alle presentazioni di libri, di mostre che hanno visto impegnate le nostre Contrade nel mantenere alta la cultura e lo studio nella nostra città!
Finalmente stasera, in questo Entrone pieno di gente, essere arrivati a questo momento tanto atteso è un’emozione difficile da sintetizzare ma eccoci qua, tutti insieme come una sola persona, uniti come sempre e onorati di scrivere una pagina della storia di Siena.
Ma perché abbiamo voluto donare il Masgalano?
Noi siamo gente un po’ all’antica, ci piace un’opera tangibile, ci piacciono i ricordi messi per iscritto, le copertine di pelle indurite dagli anni, ci piace la carta che fruscia e il suo profumo, vogliamo sentire il peso di un oggetto e un’ idea che si realizza come il poter offrire alla città il nostro Masgalano è un sogno che si concretizza e diviene parte della nostra Storia, la Storia della nostra città, della nostra gente, la Storia del nostro passato che diviene il nostro futuro.
Questa volta siamo noi ad affidare la memoria di una parte della nostra vita e del nostro percorso alla Storia di Siena e di questo siamo orgogliosi ed estremamente contenti.
Se c’è una cosa di cui siamo certi è che questo Masgalano, il nostro, sarà conservato dalla contrada che lo vincerà con lo stesso amore, dedizione e cura con cui noi archivisti delle 17 consorelle conserviamo tutto ciò che riguarda la nostra storia, la nostra città, le nostre amate contrade.
In questo splendido piatto abbiamo voluto che fosse cesellato tutto l’amore, la determinazione, il desiderio di studiare il passato per aprirsi al futuro, la nostra consapevolezza di ricoprire un incarico fondamentale in ognuna delle 17 consorelle : quello dell’ Archivista di Contrada. Grazie!
Costanza Bianciardi Fedi
In nome degli Archivisti delle 17 consorelle
Siena, 26 Giugno 2023
Presentazione del masgalano 2023 offerto dagli archivisti delle 17 contrade
Buonasera.
È un grande onore presentare alla città il masgalano offerto dagli archivisti delle diciassette contrade, che ringrazio tutti di cuore: è per me stato un privilegio aver condiviso assieme a loro questa impresa.
La realizzazione dell’opera è stata affidata alla bottega orafa Il Galeone di Siena, che nel contesto di un libero concorso indetto dagli archivisti ha saputo interpretare al meglio i gusti della committenza.
Il Galeone nasce nel 1998 grazie all’unione di Giovanna e Federico, entrambi orafi.
Giovanna è un artista che proviene dalla scuola di scultura, e già all’età di sedici anni frequenta il laboratorio del maestro Passerini a Siena, dove si forma professionalmente e grazie all’incoraggiamento del proprio maestro inizia la propria attività professionale, partecipando con i suoi lavori a fiere ed eventi internazionali, dove incontra Federico, con cui condivide la passione per l’oreficeria, e con cui inizia una collaborazione che li porterà ad aprire un vero e proprio laboratorio bottega nel centro storico di Siena.
Dal 2004 entra a far parte del Galeone anche Caterina, una delle più promettenti allieve del corso di oreficeria all’Istituto d’arte di Siena, diretto da Giovanna.
Il continuo studio di nuove forme, la ricerca di nuovi strumenti di lavoro, accompagnata all’uso delle tecniche tradizionali, hanno permesso nel tempo al Galeone di farsi conoscere alle mostre artigiane nazionali ed internazionali, così che nel 2015, Giovanna e Federico ricevono dalla regione Toscana l’attestato di Maestri artigiani; in seguito, nel 2018, l’Osservatorio dei Mestieri d’Arte (OMA) riconosce il Galeone nelle eccellenze artigiane italiane.
Si deve essere grati a tutte questi professionisti, che mediante le loro botteghe, con estro e capacità, permettono di tenere vive quelle conoscenze artistiche e professionali che hanno da sempre costituito un vanto per Siena.
Modellare il metallo, nel caso specifico l’argento, richiede pazienza, forza ed anche dolcezza nel manovrare gli strumenti che permettono di creare l’oggetto d’arte, il quale – tengo a dirlo- : è realizzato interamente a mano, senza fusione.
L’approccio ad un opera come il drappellone o il masgalano, non è scontato per un artista moderno, perché deve ideologicamente seguire i presupposti dell’arte tradizionale: infatti l’oggetto che dovrà realizzare possiede già una cornice simbolica efficace, è un premio ambito dalle contrade, e questo conferisce di per sé un valore all’opera stessa a prescindere dall’aspetto artistico.
Il compito dell’artista è quindi quello di riempire la “cornice” con un oggetto bello: egli deve avere la capacità di innalzare un oggetto comune alla dignità del contesto che rappresenta.
Più la cornice ideale è bella più il compito dell’artista diventa arduo.
(e nel caso nostro la cornice è immensamente bella!)
Gli artisti del Galeone hanno materializzano questa ideale cornice mediante il bacile in argento, che costituisce la base fisica e concettuale dell’opera, formata da un piatto in argento sbalzato a mano, sul cui bordo sono rappresentate, su disegno originale, le diciassette contrade con la propria impresa, realizzate in argento con le tecniche del traforo, cesello, saldatura a fiamma e brunitura, disposte in ordine alfabetico in senso orario (quello della corsa del palio).
Cimentarsi nella creazione di un bestiario originale delle contrade è qualcosa di gratificante e complesso allo stesso tempo, perché un artista si misura con araldiche antiche, che si sono raffinate nel corso di oltre cinquecento anni.
Non sono banali stemmi, ma sono dei talismani totemici che proteggono i propri popoli.
Nel bordo superiore infine si trovano, in apologetica protezione delle consorelle, rappresentati gli stemmi del Comune di Siena, del Magistrato delle contrade e del Comitato amici del palio impreziositi da una bordatura in oro a 18 carati.
Il cuore del bacile è riempito di elementi che rimandano al fondamentale ruolo degli archivisti, che è quello di conservare e tramandare le nostre memorie.
Sulla parte sinistra si trova un libro aperto in argento, ad altorilievo realizzato con la tecnica dello sbalzo, in una pagina del quale è rappresentata, incisa a mano con bulino e fresa, la vista di Siena, ripresa da una raffigurazione pittorica di Sano di Pietro, mentre nell’altra pagina è riportata la frase tratta dal De Oratione di Marco Tullio Cicerone : “La memoria è tesoro e custode di tutte le cose”.
Il libro è completato da una copertina in rame sapientemente patinata.
La memoria e la sua conservazione, sono il tema che sta alla base di questo masgalano, e sono anche il senso stesso di un archivio di contrada, perché è davvero difficile immaginare il futuro per le nostre contrade senza una memoria.
A fianco del libro si trova una penna d’oca, strumento iconografico che completa il rimando al lavoro svolto dagli archivisti, eseguita anche questa in argento e modellata con la tecnica del traforo, sbalzo, cesello, saldatura a fiamma e brunitura finale.
Gli elementi appena descritti che emergono nel centro del bacile, sono adagiati in un letto di tufo che porta le tracce degli zoccoli, a testimoniare l’avvenuto passaggio dei barberi, realizzato in terracotta, modellata e stratificata.
La terracotta rappresenta nel panorama artistico odierno un medium potente e funzionale al linguaggio espressivo contemporaneo, ingloba in sé i quattro elementi fondamentali di tutte le cosmogonie: la terra, madre generatrice delle nostre radici, l’acqua nutrice che la plasma, l’aria che la consolida ed il fuoco che la purifica rendendola eterna.
La Sapienza messa dagli artisti del Galeone nell’uso dei materiali e la loro capacità di modellarli, riescono quindi a trasmettere in maniera immediata, a chiunque osservi l’opera, il valore che gli archivi hanno per le nostre contrade.
È un masgalano di facile lettura per un senese, anche se intriso di simbolismo e carico di significato; nessun elemento che compone l’opera è casuale, ed ognuno di questi occupa un preciso posto ed un preciso significato.
L’opera prende origine dal concetto classico del bacile in argento e si sviluppa in una chiave moderna inserendo l’elemento della terracotta da cui emergono gli strumenti della memoria e della sua conservazione.
E sta proprio in questo la chiave di lettura: conservare e proteggere la tradizione, senza aver timore di usare i nuovi strumenti che ci mette a disposizione la tecnologia, non usiamo più la penna d’oca ma tablet e pc che ci permettono di salvaguardare e proteggere la nostra storia con ancora più precisione ed attenzione.
Avere cura del passato significa prendere coscienza del futuro.
Riccardo Manganelli