21 > 26 gennaio | Teatro della Pergola
(martedì, mercoledì, venerdì, sabato, ore 21; giovedì, ore 19; domenica, ore 16)
Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi in
SARABANDA
di Ingmar Bergman
traduzione Renato Zatti
scene Gianni Carluccio
costumi Daniela Cernigliaro
musiche Pasquale Scialò
suono Hubert Westkemper
regia Roberto Andò
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Teatro Biondo Palermo
in accordo con Arcadia & Ricono Ltd
per gentile concessione di Joseph Weinberger Limited, Londra
per conto della Ingmar Bergman Foundation
Durata: 2h, con intervallo
Sarabanda, l’ultimo film di Ingmar Bergman, arriva a teatro con Renato Carpentieri, Alvia Reale, Elia Schilton, Caterina Tieghi, diretti da Roberto Andò, sul palcoscenico del Teatro della Pergola dal 21 al 26 gennaio.
In questa sorta di testamento artistico, il Maestro svedese torna a Scene da un matrimonio con i protagonisti diventati, trent’anni dopo, più maturi, ma anche più spietati. Un confronto tra ex marito ed ex moglie, alla presenza del figlio e della nipote.
Il mistero dell’amore e dell’odio, l’ineluttabile conflitto tra genitori e figli, tra indifferenza e attaccamento morboso, la vecchiaia, l’angoscia degli «ultimi giorni», sono i temi di questa Sarabanda.
Una danza lenta e severa in cui le coppie si formano e si disfano: dieci scene, dieci dialoghi in cui i personaggi s’incontrano a due a due, per sciogliersi definitivamente nell’esecuzione della sarabanda di Johann Sebastian Bach a opera di padre e figlia. Un testo scomodo nella sua cruda onestà.
«Un inferno strindberghiano dove cova solo il disamore, dove – conclude Roberto Andò nelle sue note di regia – non c’è spazio per alcuna trascendenza. Talmente spietato da creare l’effetto contrario. Un canto sulla mancanza d’amore, che nella sua intensità si rovescia in una spasmodica ricerca d’amore. Un poema sul paesaggio interiore dello sconforto e del congedo dal mondo».
Note di regia
di Roberto Andò
Sarabanda è il film-testamento di Ingmar Bergman. Il grande regista lo girò nel 2003 con una telecamera digitale, affidandolo a due attori simbolo della sua filmografia come Erland Josephson e Liv Ulmann. È concepito in dieci scene in cui, volta per volta, si avvicendano due dei quattro personaggi che ne compongono il disegno. Una struttura musicale che allude alla sarabanda, una danza per coppie solenne e lasciva che venne proibita nella Spagna del sedicesimo secolo, per poi essere adottata da grandi compositori come Bach o Handel. Come disse lo stesso Bergman in un’intervista: «Essa finì col diventare una delle quattro danze fisse nelle suite strumentali barocche, inizialmente come primo movimento, poi come terzo».
Sarabanda è l’opera più radicale di Bergman e sembra riconsiderare i grandi quesiti che il maestro svedese aveva affrontato nelle pellicole precedenti. Anche se è ritenuto un sequel di Scene da un matrimonio, a ben vedere è un film del tutto autonomo. Conosciamo le parole con cui il regista introdusse il lavoro alla troupe e agli interpreti: «Quello che stiamo per fare può apparire semplice: un prologo, dieci dialoghi, un epilogo. È bene che sappiate che sarà estremamente difficile. È la mia ultima regia: esigerò il massimo da me e da voi. Non avrò pietà». Parole chiare, come sempre. Parole che mostrano quanto considerasse cruciale l’opera che aveva in mente. Un’opera, per l’appunto, terminale.
La famiglia, la solitudine, l’arte come possibile redenzione, la vecchiaia, la morte sono alcuni dei temi attorno a cui ruotano i dialoghi di quella che si può definire una vera e propria pièce di teatro (Bergman fu a lungo indeciso sulla forma più congeniale cui affidare l’opera che stava concependo, se teatro, radio o cinema). Temi che sono ben presenti anche nella grande drammaturgia di Strindberg, di Ibsen, di Fosse, in una continuità che, al di là dell’originalità delle singole voci, tratteggia le linee di un preciso paesaggio esistenziale.
Il Bergman di Sarabanda non sembra credere più a nulla, è disperatamente distruttivo, e incatena i propri personaggi a un pessimismo totale sul senso delle relazioni umane. Il plot è un pretesto: Marianne va a trovare Johan, il suo ex marito, nella casa isolata dove si è ritirato. Il soggiorno dovrebbe durare pochi giorni e invece si prolunga per alcune settimane. L’animo dell’uomo è inquieto, in rotta col mondo e anche con il figlio Henrik che vive poco distante da lì insieme alla figlia diciannovenne, Karin, promettente interprete del violoncello.
L’andamento in cui si incastrano le scene è musicale e i nodi, i conflitti dei personaggi, non sembrano sciogliersi mai, si susseguono irrisolti nella loro brutale drammaticità, anche se a volte sembrano inchinarsi all’ineffabile, come nella sibillina indicazione apposta da Hindemith per interpretare il movimento di una sua sonata: «Lebhaft ohne Ausdruck» (vivo senza espressione).
Se in Fanny e Alexander Bergman si teneva stretto al calore dei riti familiari e al teatro come guscio protettivo in cui è ancora possibile ricreare un mondo illusorio, in Sarabanda la vita è rappresentata nella dimensione di un’angosciante bipolarità – la depressione è il vero tema sui cui è costruito il film – in un’assillante resa dei conti con i fantasmi del passato, con la paura della morte, con il senso di colpa. Riecheggia il Kierkegaard di Timore e tremore e Sull’angoscia. Anche per Bergman «la disperazione è la malattia mortale, un eterno morire senza morire, l’assenza della speranza di poter vivere».
Nonostante sia molto dialogato, come in tutti i film di Bergman anche in Sarabanda è decisivo il valore del silenzio e del gesto. I personaggi si rivelano più in quello che non dicono che in quello che dicono. D’altronde, in una storica intervista televisiva Bergman dichiarò che la sua sfiducia nella parola era tale da fargli considerare la sola forma di verità il silenzio.
In Sarabanda ci si parla per ferirsi, o per riferire di ferite passate, senza che sia mai possibile una minima intesa. Come è difficile trovarvi una traccia di speranza. Anche se forse, per momenti fuggevoli, l’autore, come bene ha notato Paolo Mereghetti, sembra affidarla a Karin, la giovane aspirante solista che verso la fine della pièce esprime l’intenzione di liberarsi del padre per entrare nell’orchestra diretta da Claudio Abbado, sperimentando la gioia di suonare con gli altri.
Per il resto, regna l’amarezza, il risentimento, l’odio. Come in Festen di Vinterberg, film molto amato da Bergman, non c’è salvezza per la coppia, come non c’è ricomposizione possibile per il filo di trasmissione genitori-figli (nel rapporto tra Henrik e Karin affiora anche il tema dell’incesto). Insomma, il mondo della relazione è disperato e misero.
Un inferno strindberghiano dove cova solo il disamore, dove non c’è spazio per alcuna trascendenza. Talmente spietato da creare l’effetto contrario. Un canto sulla mancanza d’amore, che nella sua intensità si rovescia in una spasmodica ricerca d’amore. Un poema sul paesaggio interiore dello sconforto e del congedo dal mondo.
Teatro della Pergola
Via della Pergola 18/32, Firenze
Tel 055.0763333
biglietteria@teatrodellapergola.com
Biglietti
Platea € 37 – Palco € 29 – Galleria € 21
Ridotto over 65, convenzioni
Platea € 34 – Palco € 26 – Galleria € 19
Ridotto soci Unicoop Firenze
Platea € 32 – Palco € 24 – Galleria € 19
Ridotto under30, abbonati
Platea € 30 – Palco € 22 – Galleria € 19
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Le riduzioni over 65 e under 30 sono valide per le recite dal martedì al sabato.
La riduzione soci Unicoop Firenze è valida per le recite di mercoledì e giovedì.
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